Se i social network fossero i componenti di una famiglia, Twitter sarebbe il figlio adolescente che fa discutere e alzare i toni a tavola. Snapchat quello che fa un gran trambusto, ma si sa, è artista. Facebook lo studente modello, pedissequo, visionario quanto basta, sempre appresso agli amici, ma alla fine, porta una buona pagella a casa.
Twitter no, Twitter sarebbe quello che costringe a confronti costanti con i genitori (gli azionisti), che non si fa capire, che inizia cose che non finisce, o che finisce troppo presto. Quello “intelligente, ma si applica?“.
Il 2016 di Twitter è stato pieno di alti e bassi: si è aperto con le indiscrezioni, confermate in maniera sibillina anche dal Ceo, che parlavano del superamento, per i tweet, dello storico limite dei 140 caratteri. Un cambiamento che secondo molti lo avrebbe snaturato, reso un ibrido senza senso: infatti, solo mesi dopo si è saputo che l’estensione sarebbe consistita nell’evitare di contare come caratteri le menzioni degli altri utenti, foto e gif.
Un piccolo passo per l’uomo, un grande passo per l’editing dei post.
Le cattive notizie sono arrivate da subito, a gennaio: prima il servizio irraggiungibile per ore, poi il colpo più duro. Cinque top manager dell’azienda rassegnano le dimissioni: Katie Stanton (vicepresidente Media), Alex Roetter (vicepresidente Sviluppo), Brian Schipper (Risorse Umane) e Kevin Weil (Prodotto) e il capo del progetto Vine (che merita un capitolo a parte), Jason Toff. Jack Dorsey è in carica come Ceo da qualche mese, ma il titolo crolla a picco.
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